ISSN 2605-2318

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«Non vi è più nessun diktat di pensiero musicale» Alessandro Solbiati


09/01/2023

Intervista di Paco Yáñez per El Compositor Habla.


 
Allievo di grandi maestri come Sandro Gorli e Franco Donatoni (di cui parla in questa intervista), Alessandro Solbiati (Busto Arsizio, 1956) è un compositore italiano che affianca a un'importante carriera internazionale, vincendo numerosi premi e commissioni, l'attività didattica presso il Conservatorio di Milano, dove lui stesso ha studiato Pianoforte e Composizione. Con una particolare sensibilità per la letteratura (che costituisce la base testuale di molte sue partiture), il cinema e le tematiche sociali e politiche, l'attuale lavoro di Solbiati nel genere operistico si distingue per proposte di grande forza come Il carro e i canti (2009) o Leggenda (2010-11): lavori che mostrano l'attenta sintesi di armonia e sonorità estese che possiamo ascoltare in brani che sono anche caratterizzati da raffinatezza e poetica. Di tutto questo parliamo in questa lunga e generosa intervista per la quale lo ringraziamo sinceramente da El Compositor Habla.

 
1. Paco Yáñez: Chiunque conosca a fondo la tua musica saprà quanto sia importante per te il suo messaggio politico. La tua opera Leggenda è forse uno degli esempi più chiari. Alla luce di ciò, come valuti i risultati delle ultime elezioni in Italia e cosa possono significare per la musica nel tuo paese?
 
Alessandro Solbiati: La Leggenda del Grande Inquisitore, dai Fratelli Karamazov, dalla quale nel 2008-09 trassi il libretto di Leggenda, opera andata poi in scena nel 2011, è un testo di enorme importanza, che pone interrogativi taglienti e provocatori a 360°: sulla fede, certo, ma anche sulla condizione umana e sul controllo delle coscienze da parte del Potere. Quest’ultimo era l’aspetto che in quel momento mi aveva condotto alla necessità di metterlo in scena, in un’Italia dominata da un Presidente del Consiglio che era anche proprietario di tre reti televisive e di varie testate giornalistiche.
 
L’Inquisitore dice, al presunto Cristo, inopinatamente ritornato nel mondo nel XVI secolo dell’Inquisizione: “Perché sei tornato? Noi abbiamo impiegato mille anni a risolvere i guai che tu hai provocato. Tu volevi portare la libertà all’Uomo? Ma l’uomo non desidera essere libero, egli vuole qualcuno che gli dica cosa e come pensare, che cosa scegliere, quando e come divertirsi, in che cosa credere. Noi abbiamo fatto questo ed ecco che gli uomini ci seguono come agnelli”. L’analogia con la situazione italiana allora certo paradossale, ma non solo italiana, dato il controllo delle coscienze sempre più sottile e subdolo permesso dai mezzi di comunicazione di massa sempre più sofisticati a livello planetario, era potente e inquietante.
 
I risultati delle recentissime elezioni italiane aprono uno scenario molto differente da quello, ma per certi versi ancora più inquietante e dalle conseguenze ancora imprevedibili. È stata tolto di mezzo Mario Draghi, l’unica figura italiana da poco conquistata alla política che stava ottenendo una generale approvazione in Italia e in Europa, e che si stava profilando come la personalità più autorevole forse dell’attuale, intera Comunità Europea. Certo, era il capo di un Governo paradossale, che andava dalla destra più becera fino alla sinistra, lui solo poteva tenere insieme una tale compagine, ma certamente stava compiendo passi assai importante e che con grande classe ha continuato a compiere anche dopo le nuove elezioni, essendo stato sfiduciato.
E perché è stato fatto cadere? Per il cinico calcolo politico di una destra che sapeva di essere in maggioranza e che voleva un governo tutto proprio, incurante del delicatissimo momento in cui ci si trovava e ci si trova.
 
Che cosa mi inquieta innanzitutto delle figure che stanno via via prendendo il Potere?
Paradossalmente, la spudorata, totale differenza tra il tono degli attuali discorsi, pieni di fair play, di rassicuranti attestazioni di spirito democratico, e i discorsi che le stesse persone hanno fatto per tutta la vita fino a pochi mesi fa, ricchi di evidente nostalgie fasciste, di messaggi di sintonía lanciati alle peggiori destre europee, sovraniste, chiuse alle migrazioni, omofobe e così via. Non è difficile immaginare che si tratti di una maschera volta ora a rifarsi la faccia, a dare un’impressione di democrazia cui è assai difficile credere.
 
Quali conseguenze sulla cultura e sulla musica?
Purtroppo, e con amarezza, qui sono io a divenire cinico. La musica e la cultura in genere sono state maltrattate in Italia allo stesso modo da sinistra e destra, negli ultimi trent’anni. È finita l’antica equazione sinistra = attenzione alla cultura, è finita da molto anche se in effetti praticamente tutte le figure importanti dell’arte e della cultura italiana sono di fatto schierate a sinistra. Loro sì, ma i politici di sinistra no, tesi come sono a conquistare il favore popolare mostrandosi più vicini, ad esempio alla musica pop che a quella colta, anzi ignorando tout court l’esistenza di quest’ultima.
 
Quindi, ahimè, non mi aspetto un peggioramento particolare, ora, ma solo perché vi è poco da peggiorare e soprattutto perché la cultura non è considerata elemento importante, dai politici, per ottenere popolarità. Ma forse mi sbaglio e si può ancora andare peggio, ad esempio mettendo in talune posizioni (Direzioni artistiche, Sovrintendenze dei Teatri e così via) personaggi ancora più avversi ad una cultura contemporanea sentita, dagli attuali uomini della maggioranza, ancora…“comunista”.
Vedremo. Certo è che sono personalmente pronto ad espormi in ogni modo, in difesa di ciò in cui credo.
  
2. Paco Yáñez: C'è una lunga tradizione politica nella musica italiana del secolo scorso, con figure importanti come Luigi Dallapiccola o Luigi Nono. Guardando ai risultati elettorali in Italia in questo XXI secolo, non sarebbe importante per il mondo della musica, della cultura e dell'arte riattivare un discorso politico per far fronte a queste nuove forme di controllo e il fascismo quotidiano di cui si parla?
 
Alessandro Solbiati: Rispondo a questa domanda, un’ora dopo che è stata annunciata la formazione del nuovo Governo italiano, guidato da Giorgia Meloni. La rabbia che ho provato il giorno successivo alle elezioni del 25 settembre si è trasformata e si trasforma ora in una profonda inquietudine e nella necessità di essere vigile. Sto reagendo molto “a caldo”: ad esempio non mi è piaciuto affatto il cambiamento di denominazione di alcuni ministeri, denominazione in cui ora compaiono la protezione del made in Italy e la parola stessa “sovranità”, che mi risveglia scenari pseudo-autarchici di antica memoria.
 
Ma, stabilito che in qualche modo questo è quello che ha voluto il popolo italiano, non voglio essere completamente prevenuto e voglio attendere le mosse di questo governo, in campo culturale e non solo. Certo, il fatto che diventi Ministro della Cultura il direttore della rete RAI più reazionaria, non mi fa piacere.
 
Per rispondere più esattamente alla domanda, penso che il clima culturale, sociale e politico (non solo in Italia, naturalmente) sia molto diverso, ora, da quello degli anni in cui agiva Luigi Nono, diciamo dagli anni ’60 -’70. Nel mondo dell’arte e della cultura non vi è attualmente una coerenza di atteggiamenti e di posizioni che permetta una eventuale risposta unitaria a possibili strategie politiche deliranti, a meno che non vengano prese decisioni così gravi da finire per ricompattare artisti e uomini di cultura.
 
Tuttavia, rispetto agli anni ’60 e ’70, vi è una possibilità enormemente maggiore di comunicare e di esporre le proprie, anche individuali posizioni e di reagire, sia con la propia stessa attività artisitca, sia “semplicemente” scendendo in campo attraverso i moderni mezzi di comunicazione.
 
Quindi per quanto mi riguarda, sono pronto a prendere una posizione netta, sia attaverso la mia attività compositiva, sia attraverso l’insegnamento e il contatto con i giovani, affinché la loro coscienza sia sveglia, sia in tutte le occasioni comunicative che ho a disposizione con continuità, in RAI-Radiotre, sulle riviste per le quali scrivo e così via.
 
Chissà, forse inizia un importante momento di presa di coscienza política, per me come per tutti gli uomini di cultura “di buona volontà”, italiani e non solo.
 
3. Paco Yáñez: Uno dei tuoi progetti più recenti riprende quel messaggio politico degli anni '60 e '70, attraverso uno degli artisti italiani più interessanti del secolo scorso, nonché uno dei più combattivi sul piano politico: Pier Paolo Pasolini, di cui nel 2022 celebriamo il centenario della nascita. Cosa puoi dirci di questo progetto, in cui tu stesso hai fatto la selezione dei testi, delle musiche e della scenografia?
 
Alessandro Solbiati: Quando ero ragazzo, intorno ai miei quindici anni, nei primissimi anni ’70, e cioè nel pieno furore politico del “dopo ’68”, ero rimasto colpito, dovrei dire folgorato dalle posizioni prese da quest’uomo fragile e potente, che aveva il coraggio di essere sempre controcorrente, di non cedere mai al “pensiero corrente”. Mi spiego: nel 1970, quando avevo 14 anni, il pomeriggio di un sabato ero andato a Milano in treno (abitavo a Busto Arsizio, a 35 km da Milano) per comperare una partitura. Uscendo dalla metropolitana, incappai in una manifestazione politica, intuii che vi era il rischio di violenze, vedevo agenti schierati con scudi e quant’altro, immobili, e sentivo gli insulti che i manifestanti rivolgevano a ventenni come loro, in divisa. Impaurito, tornai in metropolitana e seppi poi che in quella manifestazione era stato ucciso un agente. Mesi dopo lessi un testo di Pasolini, uomo certamente di sinistra, in cui, in un momento storico e politico in cui era “obbligo” stare dalla parte dei manifestanti, egli si schierava invece dalla parte di quegli agenti, dicendo che molti di essi erano figli di proletari del Sud costretti ad entrare in polizia per trovare un lavoro, mentre molti dei manifestanti, studenti universitari, erano borghesi figli di famiglie benestanti che non avevano alcuna necessità di trovare un lavoro per vivere. Quel suo commento suscitò un diluvio di critiche, dalla sua stessa parte politica.
 
Il coraggio di non curarsi della cultura corrente, di essere una coscienza critica lucida che lo rendeva bersaglio da sinistra e da destra, di esplicitare la propria fede profonda e nel contempo di essere ferocemente critico contro la religione e le posizioni della Chiesa, tutto questo lo rese subito una figura centrale della mia crescita di adolescente.
 
Film come Accattone, Mamma Roma diventarono un mio riferimento; ancor più mi entrò nel cuore per sempre Il Vangelo secondo Matteo. Non è un caso se considero come uno dei miei lavori più importanti Del folle amore – Passione secondo Maria, per soprano, coro e orchestra, composto nel 2020, ma progettato fino dal 2006, in cui ho messo in musica la lauda di Jacopone da Todi Donna de Paradiso, una Passione narrata dal basso, dalla strada, dal popolo e da una donna che sta “semplicemente” perdendo suo figlio, non il Figlio di Dio, una lauda di cui vidi la memorabile interpretazione di Franca Rame in Mistero buffo di Dario Fo. Questo ampio lavoro, che finalmente avrà la sua prima esecuzione il 4 ottobre 2023 a Firenze, non esisterebbe se non avessi visto il Vangelo secondo Matteo. E io, tra l'altro, ho dedicato Del folle amore alla madre di Giulio Regeni, che sta conducendo un'inflessibile, anche se purtroppo utopistica, disputa sulle possibili presunte responsabilità della polizia segreta egiziana nelle vicende che hanno portato alla scomparsa e morte di Giulio, ea tutte le "mamme di coraggio" del mondo, quelle degli "scomparse" e non solo.

Nel 2021, tornando da un concerto assieme all’amica pianista Maria Grazia Bellocchio, che aveva suonato miei lavori, ella mi disse che era preoccupata del fatto che, avvicinandosi il centenario della nascita di Pasolini, forse a causa di Covid, non si vedeva all’orizzonte nessun progetto musicale attorno a lui e alla sua poesia (non è poi stato così, vari compositori si sono occupati di lui, quest’anno). Risposi immediatamente che l’avrei fatto io, senza alcuna commissione.
 
Ho letto e riletto la sua produzione poetica e ho creato una sorta di libretto per un’azione di teatro iper-povero, senza scene, in cui Pasolini stesso, interpretato da un attore, si muove tra il pubblico parlando di sé, partendo da una giovane anima condannata a vivere da Colui che non perdona, passando attraverso echi di giovinezza, il controverso rapporto con la madre, il rapporto con la poesia e con la morte, per concludere dal palco, lanciando un potente e aspro messaggio al pubblico. Sul palco, una pianista e un soprano che incarna la Madre, o la Madre Terra friulana.
 
I versi di Pasolini dialogano (alternati o sovrapposti) con musiche mie in parte preesistenti e in parte scritte appositamente, in particolar modo Sonata terza per pianoforte, i cui tre movimenti punteggiano e interpretano successivamente altrettanti punti nodali del testo.
 
Ma vi sono altre musiche, quelle amate da Pasolini, cioè mie rivisitazioni di due brani di Bach (Erbarme dich dalla Matthäus-Passion e la Sarabanda dalla V Suite per violoncello) e di due meravigliosi canti popolari friulani: in entrambi i casi, le linee vocali o melodiche originarie sono intatte, mentre il pianoforte le avvolge con un uso timbrico molto ricco.
 
Questo progetto musicale e scenico, intitolato Soave poeta, quel mio omonimo che ancora porta il mio nome è l’omaggio a un autore cui devo molto: scrivo questa risposta oggi, il 2 novembre 2022, esattamente l’anniversario dell’uccisione di Pasolini, giorno in cui, molto significativamente, il mio lavoro avrà la sua terza esecuzione, questa volta nella bella Sala dell’Accademia Chigiana di Siena.   
 
4. Paco Yáñez: Oltre ad essere un compositore, sei professore al Conservatorio di Milano. Come pensi che il cambio di governo e il maggior peso dell'estrema destra possano incidere sui bilanci della formazione musicale superiore, oltre che sulla libertà di espressione nei Conservatori?
 
Alessandro Solbiati: In questo caso penso di poter serenamente dire che non vedo particolari rischi, e per molti motivi, uno dei quali, in verità, l’ultimo di cui parlerò, piuttosto spiacevole.
Devo fare qualche premessa.
I Conservatori italiani vivono una situazione che definirei paradossale ormai da alcuni decenni. Essi aumentarono di numero in modo quasi incontrollato negli anni ’70-’80: erano circa dieci all’inizio degli anni ’60 e in pochi anni sono diventati circa ottanta.
Ma questa era in fondo una circostanza positiva, che segnalava, in quegli anni, una forte spinta verso gli studi musicali. Il fatto è che nella Legge di Riforma cui si è faticosamente giunti nel 1999 (e io ben ricordo quel percorso perché in quell’anno ero Vicedirettore del Conservatorio di Milano, che è e resta a tutt’oggi nettamente il più importante d’Italia, l’unico, forse, a potersi confrontare con i maggiori Conservatori europei) era previsto che sarebbero stati identificati quali di quei circa ottanta Conservatori potessero ambire al ruolo di “Superiori”. Ma a quel punto si scatenò una vera battaglia che vide impegnati Sindacati e poteri locali (Regioni, Province e Comuni), nessuno voleva rinunciare alla propia qualifica di “superiore” e a tutt’oggi viviamo il paradosso dell’esistenza (a livello formale, ma non nella sostanza) di ottanta Conservatori definiti “superiori”, contro i due francesi, o nel caso più simile al nostro, le circa venti Hochschule tedesche. Si tratta di una situazione surreale e insostenibile cui nessun governo, però, ha saputo o voluto mettere mano, forse per non inimicarsi i vari poteri locali. La particolare geografía italiana motiverebbe una distribuzione di dieci, dodici Conservatori superiori, perché non abbiamo una conformazione céntrica come la Francia. Ma non di più.
 
Cambierà qualcosa, col nuovo Governo? Ne dubito molto, perché in quella strana mescolanza tra il centralismo nazionalista del Partito di Giorgia Meloni e l’autonomismo radicato fin dalla nascita nella Lega di Matteo Salvini non so proprio cosa possa prevalere, su questo argomento.
 
Ma forse invece lo so, e per un motivo che certo non mi fa piacere: la cultura in genere, l’arte e la musica colta non sono e non saranno sicuramente al centro degli interessi di tale Governo, le cose resteranno come prima, magari con qualche taglio finanziario in più e con la tacita intesa che se non alziamo particolari prestese tutto andrà avanti allo stesso modo e nessuno ci disturberà.
Per condizionare l’arte e il pensiero contemporaneo bisogna avere al proprio interno degli uomini di cultura e proprio non ne vedo, attualmente.
 
L’unico eventuale rischio è la collocazione qua e là di elementi reazionari che penalizzino ulteriormente la produzione musicale colta di oggi (tradizionalmente sentita come “di sinistra”) ma ciò è più probabile nelle Direzioni Artistiche dei Teatri, che non nei Conservatori, sentiti come più “marginali”, nella coscienza collettiva.
 
5. Paco Yáñez: Alcuni tuoi studenti, come il compositore Federico Gardella, mi hanno parlato in modo fantastico e con grande affetto degli anni in cui hanno studiato con te al Conservatorio di Milano. Come si definisce Alessandro Solbiati come insegnante e quali aspetti ritieni più importanti nella formazione di un compositore?
 
Alessandro Solbiati: Ecco una domanda alla cui risposta tengo particolarmente.
Voglio intanto ringraziare chi ti ha parlato in modo così lusinghiero del proprio periodo di formazione nella mia classe di Conservatorio o in uno dei tanti corsi che ho tenuto e tengo.

 
"In effetti i giovani con cui ho avuto modo di lavorare e che oggi sono compositori attivi anche a livello internazionale, sono davvero molti". 





 
Ne cito alcuni, ma mi scuso con altri che che non nominerò solo per non dilungarmi: Clara Iannotta, Matteo Franceschini, Luca Antignani, Federico Gardella, Vittorio Montalti, Pasquale Corrado, Javier Torres Maldonado, Lorenc Xhuvani, Giulia Lorusso, Maël Bailly, Yigit Ozatalay, Maurizio Azzan, Leonardo Marino e così via.
 
Premetto che ho avuto la fortuna (perché in certi casi anche la fortuna ha il suo peso) di iniziare ad insegnare in Conservatorio assai presto, nel 1982, a ventisei anni, e di vedermi assegnare subito una Classe di Corso Superiore di Composizione e in una città (e in un Conservatorio) di notevole importanza, quella di Bologna, città di grandi tradizioni culturali, se solo si pensa che è sede della più antica Università europea, essendo nata nel 988 (e io partecipai ai festeggiamenti per i mille anni dell’Università).
 
Insegnai lì dal 1982 al 1995 e “vissi” ogni realtà culturale e musicale della città.
La mia giovane età in rapporto alla disciplina insegnata faceva sì che all’inizio almeno la metà dei miei allievi avesse più anni di me. Questo, aggiunto al clima un po’ “festaiolo” di Bologna e al fatto che, insegnando due giorni consecutivi, passavo lì una notte ogni settimana, mi condusse quasi senza accorgermi ad impostare il rapporto con gli studenti come “compagno privilegiato” di lavoro e non come professore/allievo. Darsi del tu era inevitabile, e questo è continuato poi negli anni fino ad oggi, malgrado l’ovvio spalancarsi del divario di età.
 
Ma darsi del tu o passare una serata alla settimana insieme non condusse affatto, fin dall’inizio, ad una proposta didattica “rilassata”. Ho subito avuto ed ho a tutt’oggi una forte convinzione personale su quali siano gli aspetti fondamentali (tre, secondo me) nella formazione di un compositore.
 
Il primo è una base costituita da una profonda conoscenza delle tecniche storiche, e lo dico ancor più oggi in un contesto che tende a marginalizzare tale aspetto. Sto parlando di una conoscenza “pratica”, artigianale, e non soltanto analítica.
Quando, parlando di arte figurativa, vedo i ben noti “tagli su tela” di Lucio Fontana o, andando più indietro, le più ardite figure cubiste di Pablo Picasso, non posso non pensare che entrambi, come infiniti altri, sono giunti alle più ardite sperimentazioni dopo essersi formati una straordinaria tecnica copiando i classici con immenso e duro lavoro: diffido da sperimentazioni che non abbiano solide radici.
Scrivere corali o fughe in stile bachiano, mottetti alla Orlando di Lasso, variazioni pianistiche alla Mozart o alla Brahms conferisce al pensiero contemporaneo uno spessore indiscutibile e necessario, un livello di riflessione imprescindibile.
Quando insegnavo a Bologna, per la struttura lì attribuita agli studi compositivi, mi dovevo occupare anche di un livello avanzato di Armonia e contrappunto, ed era bellissimo mostrare le profonde analogie che esistono tra una trasformazione di cellule motiviche di Beethoven o Brahms e un processo compositivo di oggi; e continuo a farlo anche ora, malgrado non me ne debba più occupare istituzionalmente.

"una tecnica d’oggi acquista una maggiore “verità”, se se ne mostrano le radici".






Il secondo aspetto della formazione di un compositore è a mio parere ricevere dal docente un preciso indirizzo artigianale, un corpus di tecniche in cui il docente stesso creda, che lui stesso utilizzi quotidianamente componendo e di cui mostri radici e motivazioni. Io mi sono formato attraverso le tecniche comunicatemi e dovrei dire “vissute” da Franco Donatoni, tecniche di natura generativa provenienti per lo più da Bruno Maderna e che nascono dal superamento del serialismo attraverso le “crisi aleatorie” di John Cage.
Tali tecniche nacquero immerse nel “pensiero negativo” degli anni ’60, che mi è lontanissimo ed estraneo sia generazionalmente sia personalmente, ma io le utilizzo in senso opposto, con piena fiducia nelle possibilità della creatività musicale oggi, per dare corpo e coerenza al mio mondo immaginativo, figurale ed espressivo.
Una tecnica è “buona” se non influenza direttamente e univocamente il mondo espressivo, ma, anzi, se permette di incarnare le intenzioni creative del compositore rimanendo “neutrale”, esterna e soprattutto NON VISIBILE nell’opera. Io riconosco come mio Maestro Franco Donatoni ma la mia musica è sempre stata diversissima dalla sua, fin da quando ero direttamente suo allievo. Ad esempio la mia attenzione all’aspetto melodico della musica gli era del tutto estranea.
Non credo in un insegnamento neutro, in cui il docente lasci che l’allievo si formi da solo la propia tecnica, non è mai stato così, nell’insegnamento artistico, fin dalle botteghe pittoriche rinascimentali.

 
"Dalla mia classe sono usciti giovani compositori del tutto differenti, nei loro esiti musicali, eppure tutti hanno ricevuto il medesimo impianto tecnico".








Qualora, malgrado quanto ho detto, qualcuno ritenga ancora che vi possa essere in questo modo una sorta di “plagio” del docente sull’allievo, ecco arrivare il terzo aspetto fondamentrale della formazione dello studente.
Contemporaneamante al momento in cui fornisco un corpus di tecniche, ho sempre caldamente chiesto a ciascuno di prendere la propria valigia e di andare a conoscere e frequentare altri compositori, soprattutto quelli assai diversi da me, in modo da poter conoscere da vicino altri mondi, altri atteggiamenti ed altri punti di vista: il proprio non lo si perde mai, e saperlo mettere in gioco attraverso prospettive differenti lo arricchisce molto.
 
6. Paco Yáñez: Nel settembre 2022 hai partecipato al Takefu International Music Festival (Giappone) come insegnante nell’Accademia di composizione. Come valuti la tua esperienza e quali differenze hai riscontrato tra le opere dei giovani compositori giapponesi e quelle che solitamente vedi ai tuoi studenti in Italia?
 
Alessandro Solbiati: Sono necessarie alcune brevi premesse.
Innanzitutto devo ringraziare Toshio Hosokawa per il gentilissimo invito ad essere presente nel suo festival in un ruolo del tutto particolare, direi di compositore in residenza: l’esperienza è stata bellissima da molti punti di vista, per la qualità delle esecuzioni quanto per la possibilità di incontrare colleghi compositori giovani e meno giovani, musicologi ed interpreti di fama mondiale ed altri assai più giovani, ma tutti accomunati dalla medesima passione e dalla medesima professionalità.
 
Inoltre ho potuto constatare una volta di più quanto sia opportuno e importante, oggi più che mai, mescolare in un festival musica storica e musica recente o nuova, perché questo è il modo migliore possibile per non chiudere la musica d’oggi in un “recinto per specialisti”, per mostrare al pubblico che si può e si deve essere conquistati dall’ascolto di un brano di Hosokawa quanto di uno di Schumann o Schubert e che essi possono e DEVONO essere accostati, in quanto vi è una assoluta, seppur complessa, continuità nei percorsi del pensiero e del linguaggio musicale.
 
Un altro merito di questo festival è poi quello di non essere semplicemente una rassegna di concerti, ma di accostare ad essi conferenze, incontri ed anche momenti didattici per i giovani musicisti, che hanno l’opportunità di incontrare e di dialogare con compositori e musicologi di diverse generazioni e provenienze, ed io penso sempre più che “incontrare” sia il modo migliore per arricchirsi spiritualmente e culturalmente, da entrambe le parti. Proprio per questo sono stato particolarmente contento di lavorare, seppur brevemente, con alcuni giovani compositori giapponesi, poiché finora avevo conosciuto solo quelli trasferitisi in Europa.
 
La prima considerazione è un poco sconcertante e non è strettamente musicale: quasi nessuno di loro, e sto parlando di ventenni di un paese fortemente tecnologico e occidentalizzato sotto molti aspetti, parlava un inglese sufficiente per potersi relazionare direttamente con il docente, cioè quasi tutti avevano bisogno di un interprete. Ed è impossibile entrare davvero in contatto con chicchessia, se si deve parlare attraverso una terza persona, ancor più se l’argomento in gioco è il proprio comporre, la propria diretta “espressione in musica”. Ho quindi subito detto a ciascuno che se si vuole (e lo si DEVE volere) allargare le proprie esperienze al di fuori dei propri confini geografici e culturali, la prima cosa da fare è apprendere una lingua che permetta dei contatti diretti planetari.
 
Parlando più strettamente di musica, e tralasciando alcuni incontri con studenti forse eccessivamente “giovani” sul piano compositivo e quindi ancora immersi in una scrittura particolarmente ingenua, devo dire che ho potuto incontrare almeno due o tre giovani di notevole livello (in particolar modo una compositrice poco più che ventenne) ciascuno dei quali sta vivendo in modo molto interessante e personale il problema più complesso (ma anche la risorsa più ricca di potenzialità) per un giovane di cultura extraeuropea, cioè quello di conciliare le proprie radici culturali e musicali con i percorsi del linguaggio musicale occidentale. Si tratta infatti di evitare due estremi opposti sciocchi e poveri di esiti, da una parte quello di riproporre e riprodurre semplicemente la propria musica tradizionale con altri strumenti e dall’altro quello di voler dimenticare, rifiutare a tutti i costi le proprie radici, cosa peraltro impossibile oltre che stupida. E certamente quella certa giovane compositrice incontrata, che ho subito invitato a venire in Italia, sta trovando la propria via in modo molto interessante.
 
In Italia questo problema/risorsa esiste assai meno, in quanto è un paese direttamente inserito ed anche protagonista nei percorsi musicali dell’ultimo secolo, e quindi vi è un legame coerente e senza conflitti tra appartenenza culturale e linguaggio musicale. Esistono però giovani compositori italiani che provengono da aree geografiche che hanno ancora un’importante ed affascinante tradizione popolare (Sardegna, Sicilia, Salento) ed io li spingo sempre ad approfondire le proprie radici, a non dimenticarle.
 
In secondo luogo i giovani italiani sono estremamente “viaggatori”, ciascuno di loro vive esperienze musicali e didattiche anche a Parigi, Berlino etc., e quindi la coscienza tecnica e musicale media è maggiore. Devo anche dire che i compositori italiani sono moltissimi (quasi paradossalmente, dato invece il disinteresse della società italiana per la nuova musica d’arte), è un dato che continua ormai dal Secondo Dopoguerra, e che molti di essi hanno anche una notevole preparazione di base (parlo di armonia, contrappunto e orchestrazione): quindi la loro consapevolezza media è piuttosto alta, come si vede dai risultati di Concorsi internazionali di composizione nei quali sono spesso presenti vincitori italiani.
 
7. Paco Yáñez: In relazione a quanto sopra, si dice che oggi la composizione abbia un carattere transnazionale molto forte, che i segni distintivi di ogni paese e cultura siano stati eliminati. Quali elementi intrinsecamente italiani ritieni caratterizzino la tua composizione?
 
Alessandro Solbiati: Come forse si può intuire dalla mia risposta precedente, pensó che non sia poi così vero che siamo in un periodo di forte omologazione e omogeneizzazione transnazionale (e io aggiungo…per fortuna!).
 
Per meglio dire, penso che questo sia stato vero per la musica di alcuni decenni fa, gli anni ’50-’60, in cui una sorta di “pensiero tecnico dominante”, parlo di quello delle Avanguardie del Secondo Dopoguerra, tendeva a imporsi trasversalmente alle appartenenze culturali e geografiche.
 
In verità, a ben guardare, non era completamente vero nemmeno in quel momento, anche se in modo un po’ sotterraneo: ho sempre fatto notare che, guarda caso, chi in quegli anni era particolarmente attratto dalla dimensione tímbrica della musica era Pierre Boulez (pensó ad esempio all’organico stesso del Marteau sans maître), francese come Debussy e Ravel, chi era concentratissimo sull’aspetto strutturale era innanzitutto Karlheinz Stockhausen, tedesco come Beethoven e Brahms (naturalmente lo era anche Boulez, e questo era il suo côté tedesco!) e chi ha avuto il coraggio di interessarsi ad una continuità delle dimensione melódica della música malgrado tutto erano Bruno Maderna e Luigi Nono, italiani come Bellini e Puccini!
 
Ma comunque, certo, in quegli anni l’impostazione di tecnica e pensiero dello strutturalismo tendeva a deprimere le differenze culturali geografiche.
 
Viceversa due sono i fattori che hanno permesso il riapparire di interessanti peculiarità musicali dovute ai paesi di provenienza dei compositori.
 
Innanzitutto si è enormemente allargato il numero di paesi da cui provengono compositori di valore: se negli anni’50 essi provenivano al più da una dozzina di paesi (anche meno), ora vi sono compositori di ogni paese del mondo e le differenze sono inevitabili, malgrado la facilità di contatti internazionali, diretti o mediati da internet.
 
In secondo luogo, non vi è più nessun diktat di pensiero musicale (ammesso che ci sia mai stato, cosa di cui non sono poi così convinto), vi è una libertà espressiva quasi eccessiva, ai limiti del disordine e a volte della poca coscienza critica, e questo permette il riaffacciarsi di caratteristiche musicali indotte dalle culture di provenienza.
 
Ciò vale certo anche per l’Italia, e visto che mi hai chiesto di parlare di me, non mi sottraggo dall’indicarti quali elementi della mia música portino a mio parere la traccia della mia “italianità” (termine che esito a usare, in questo momento político…).
 
Innanzitutto (come ho detto poc’anzi per Maderna, che riconosco come un mio “padre inconscio” e purtroppo non conosciuto direttamente per ragioni anagrafiche) sono stato attratto fin dall’inizio dal melos, dalla possibilità di ricostruire quella dimensione melodica della musica che alla fine degli anni ’70 percepivo ancora demonizzata come vecchia e desueta. Ho fatto una lunghissima riflessione, lunga come tutti i quarant’anni e più in cui ho scritto e scrivo musica, su che cosa possa voler dire oggi “melodia”, senza che questo risvegli fantasma di accademismo o di neoclassicismo e francamente penso di esserci almeno in parte riuscito e sono piuttosteo convinto del MIO modo di ridare dignità e importanza al melos.
 
In secondo luogo penso che sia una necessità in parte personalmente mia, ma in parte anche “italiana” (con lunghe radici, che arrivano a Verdi e Puccini) una forte attrazione per la dimensione “drammaturgica” della musica, quella dimensione che permette di seguire un brano come una narrazione senza parole, una narrazione che non rimanda ad altro che alla musica, certo,  ma che riesce comunque a “raccontare”.
 
E questo attraverso un terzo aspetto che riconosco sia mio, sia “italiano”, che è quello della mia fiducia sempre più grande nella necessità di un’evidenza del gesto e della figura musicale, evidenza che cerco comunque sempre di bilanciare con altrettanta ricchezza e complessità compositive. 
 
8. Paco Yáñez: Tuttavia, accanto a quell'innegabile presenza del melodico, del drammatico e del gestuale, nei suoi ultimi lavori appare fortemente una riflessione sul suono come materiale musicale: del Klang, come dicono i tedeschi. Gli ultimi minuti del suo Quarto Quartetto (2019) sono un esempio tanto affascinante quanto spettacolare di un modo di lavorare con la materia acustica che ora contrasta con quel lavoro più melodico dei suoi primi lavori. Com'è stato il tuo percorso, come compositore, alla ricerca di queste nuove sonorità, che importanza hanno per te adesso?
 
Alessandro Solbiati: Da studente, cioè da “aspirante compositore” io ho avuto due imprinting in direzione opposta, per quanto riguarda il rapporto col suono. Attenzione, parlo di anni ormai lontanissimi, cioè gli ultimi anni’70, circa quarantacinque anni fa.
 
Tali due imprinting mi sono venuti dai miei due Maestri, il secondo allievo del primo, quindi in coerente continuità ma con sviluppi in direzione differente.
Si tratta di Franco Donatoni e di Sandro Gorli, dal lontano 1977 direttore artistico e musicale dell’Ensemble che assume ogni giorno di più un peso decisivo, nella diffusione della musica d’oggi in Italia, il Divertimento Ensemble.
Franco era totalmente concentrato sui percorsi del pensiero compositivo, su una riflessione quasi “ascetica” attorno ai processi del comporre, continuando a predicare la necessità di una concentrazione totale sul “fare” che considerasse l’“opera”, l’esito del “fare”, un puro suo residuo non essenziale. Attenzione, già negli anni in cui lo conobbi io, a partire dal 1976, si stava aprendo una dicotomia sempre più evidente (per nostra fortuna) tra ciò che diceva (a se stesso e agli studenti) e ciò che di fatto faceva come compositore, perché lo stesso affinamento progressivo delle sue tecniche lo conduceva ad un controllo sempre maggiore delle qualità timbriche e sonore dei suoi lavori, che “suonavano” sempre meglio, quasi al di là della sua stessa volontà: ma era poi davvero involontaria, questa “bellezza sonora”? Non ne sono poi così convinto, se penso ad esempio allo splendido Le ruisseau sur l’escalier per violoncello e 19 strumenti, composto nel 1980.
 
Contestualmente, studiavo con Sandro Gorli, che stava progressivamente spostando il suo centro d’interesse musicale dalla composizione alla direzione (purtroppo per tutti noi, perché taluni suoi pezzi, come On a Delphic reed per oboe e 17 strumenti, del 1978, sono veri capolavori), con un’inevitabile sempre maggior attenzione al suono.
Ricordo una sua lezione per me decisiva, quando ero ancora suo allievo in Conservatorio: era il 1981, gli stavo mostrando una pagina del brano che lui stesso avrebbe diretto alla Biennale di Venezia pochi mesi dopo (la mia prima Biennale!), De ces ciels brouillés, per oboe e sette strumenti, una pagina in cui vi erano alcune note isolate di strumenti ad arco, come disperse nel tempo. Sandro iniziò a pormi domande sempre più pressanti sull’inviluppo dinamico di quelle note, sulle arcate, sulla posizione dell’arco, alla tastiera o al ponticello, sul vibrato, e quando io gli risposi che ancora non lo avevo deciso, lui mi rispose duramente che quindi stavo scrivendo senza sapere “che musica volessi”, perché la scelta di quei parametri era più importante, per definire il senso musicale, del nome stesso della nota. Aveva perfettamente ragione, malgrado la mia orgogliosa e insensata reazione di quel momento, e quella lezione mi si è stampata dentro per sempre.
 
Se già penso a Trio (1987), per violino, violoncello e pianoforte, l’uso lì fatto di cordiera, corde stoppate e armonici del pianoforte per meglio amalgamarlo con gli archi, e dall’altra parte alla definizione timbrica degli archi stessi, devo prendere atto che fin da lì il “distacco dall’esito” di matrice donatoniana mi era del tutto estraneo, che l’attenzione al suono nella sua completezza e definizione timbrica come veicolo diretto dell’immagine musicale, della figura e quindi del senso stesso della musica voluta stava diventando il mio centro d’interesse primo.
 
A questo va aggiunta una cosa fondamentale: il progressivo rapporto con i più giovani, con gli allievi. Se vi è un filo conduttore, nei percorsi della generazione successiva alla mia, è proprio l’attenzione estrema, quasi feticistica, al suono. Attraverso gli allievi stessi, ho allargato via via le mie conoscenze sonore, prendendo atto di un vasto repertorio di tecniche estese che in me non sono mai un must di moda, un desiderio di originalità sonora a tutti i costi che trovo stupida ed effimera, ma che metto viceversa al servizio di una necessità espressiva che può a volte avere bisogno di nuovi e più ampi vocaboli sonori.
 
Da questo punto di vista considero passi fondamentali, per me, lavori come Sonata seconda per pianoforte (2005), Sestetto a Gérard (2006), il Quarto Quartetto che tu citi (2019) e la successiva Seconda sinfonia da camera (2021).
A ciò si aggiunge il desiderio di approfondire la conoscenza di altri strumenti, che mi ha portato ad esempio a Quaderno d’immagini, otto brani per cymbalom, con un utilizzo del tutto nuovo dello strumento, poi riuniti in Nora, per cymbalom e sette strumenti e in successiva versione per cymbalom e orchestra. Ma anche il lavoro svolto sulla chitarra, che mi ha condotto nel 2015 a Sonata, va annoverato come segnale di una mia vera e propria “fame” di suono, una fame, ripeto, non fine a se stessa, ma usata come strumento affilato per meglio conoscere le mie stesse istanze espressive.

 
"Ormai, in me, il desiderio crescente di intensità espressiva passa attraverso una richiesta di definizione timbrica sempre più forte del suono utilizzato".
 






9. Paco Yáñez: Nel XXI secolo, alcuni di coloro che sono stati veri e propri maestri nell'uso di queste tecniche estese, che tu ritieni un "must" o una moda per molti compositori, stanno cercando di integrarle con un linguaggio armonico, e penso a Helmut Lachenmann e alla Musique Saturée francese. È una sintesi che risponde, in un certo senso, alla traiettoria che hai appena descritto e alle tue due origini di compositore, con i tuoi maestri Franco Donatoni e Sandro Gorli. Come gestisci questa integrazione, in questo momento e in opere come la sua recente Seconda sinfonia da camera? In che misura il pensiero musicale nasce ora, nei primi momenti delle tue composizioni, da una struttura armonica o da un suono, da un timbro?
 
Alessandro Solbiati: Io penso, quantomeno questa è la mia esperienza quotidiana di compositore, che oggi più che mai non si possano separare l’uno dall’altro i parametri del suono, nel percorso compositivo. Attenzione, non si tratta certo di una novità, ma di qualcosa che è divenuto via via sempre più vero nel corso dei secoli: a un livello un po’ grossolano, si può dire che una Fuga di Bach resta all’incirca la stessa se suonata all’organo, al clavicembalo o al pianoforte, ma nessuna Sonata di Beethoven sarebbe nata senza le peculiarità specifiche, timbriche e dinamiche, del pianoforte. La ben nota Sonata di Franck viene sciaguratamente eseguita anche con il flauto, ma perde moltissimo, perché è vistosamente pensata per le potenzialità sonore del violino. È vero che le Sonate op.120 di Brahms sono dedicate alla viola quanto al clarinetto, ma questo dipende dal fatto che l’Autore ha esattamente pensato al timbro velato, vellutato di entrambi gli strumenti, nel campo rispettivamente degli archi e dei legni. Ma a partire da Ravel, ogni nota può essere suonata solo dallo strumento per cui è stata pensata: se è identificabile un unico fil rouge che leghi le diverse musiche composte nel XX secolo, esso consiste nel raggiungimento della totale parità di importanza dei differenti parametri del suono (altezza, timbro e dinamica), laddove precedentemente il parametro “altezza” era stato vistosamente privilegiato. Si pensi al fatto che lo spettralismo nato in Francia a metà anni ’70 ha compiuto una sorta di quadratura del cerchio, leggendo nella stessa conformazione spettrale di un unico suono prodotto da un certo strumento la sua stessa “armonia”: timbro e armonia si sono fusi.
 
Per quanto mi riguarda: è vero che le tappe successive del mio percorso compositivo sono ogni volta, successivamente idea - immagine (interfaccia sonora e temporale dell’idea) - figura (“qualità” complessiva dell’evento musicale) -  gesto (fisionomia istantanea dell’evento sonoro che crea via via la figura) – armonia/suono, ma è altresì assolutamente vero che armonia e qualità sonora (timbro, articolazioni e tecniche esecutive) non sono affatto la “camicia” finale della figura, una sorta di ornamento inevitabile ma inessenziale, bensì concorrono a definire in modo unico e necessario la qualità del gesto e della figura. Non esistono un’armonia e un “suono” se non in funzione strettissima di una figura, che diventa tale solo attraverso una serie di ben precise scelte di carattere armonico/timbrico: ma tale relazione è sempre più del tutto biunivoca e in qualche caso potrebbe benissimo essere che il mio punto di partenza sia un “suono”, una precisa fisionomia sonora, e che esso si faccia via via gesto e figura.
 
Nel caso specifico di Seconda sinfonia da camera, essa è composta da otto brevi movimenti di due minuti, ciascuno dei quali è “modellato” immaginativamente e affettivamente su un compositore recente o vivente cui tale movimento è dedicato e che ha influito su di me (su un elemento della sua musica o della sua persona): si tratta nell’ordine di Bruno Mantovani, Bruno Maderna, Niccolò Castiglioni, Franco Donatoni, Sandro Gorli, Gérard Grisey, George Benjamin e György Kurtág. Poiché i movimenti sono assai brevi, ciascuno è basato su un solo elemento ben differenziato che si deve subito stagliare, e questo fa sì che ciascun movimento sia pensato fin dall’inizio globalmente nei suoi aspetti figurali, gestuali, armonici e timbrici.
 
10. Paco Yáñez: Se parliamo della creazione musicale di Alessandro Solbiati finora nel 21° secolo, credo sia inevitabile fare riferimento alla tua opera, sopra ricordata, Leggenda. Sebbene Leggenda sia la tua terza opera, sarebbe la seconda in scena, poiché la prima, Inno (1996), era per la radio. Quanto pesa la tradizione su un compositore italiano, nel tuo caso, quando si tratta di un genere potente come l'opera? Su cosa voleva lavorare e contribuire Alessandro Solbiati a quella ricca scena operistica italiana?
 
Alessandro Solbiati: Inno era solo una produzione radiofonica, una sorta di invisibile “messa in scena” del meraviglioso “inno all’amore” dalla I lettera ai Corinzi di San Paolo, un testo in grado di mettere d’accordo tutti, di qualsiasi posizione culturale, politica o religiosa, poiché, in modo sicuramente rivoluzionario, esso afferma con forza la superiorità dell’Amore su tutto, persino sulla Fede. Avevo vinto un Concorso internazionale bandito da diverse radio europee, ero emozionato dall’avere la più vasta platea virtuale che mi fosse mai capitata (quella di sei reti radiofoniche nazionali europee) e pensai a un testo di valore davvero universale ed eterno. Che dentro di me io pensassi a questo lavoro come una sorta di drammaturgia lo si capisce dal fatto che pochi anni dopo lo trasformai in una produzione video per me molto importante, che partiva dalla Torre di Babele dipinta da Brueghel resa “visitabile” con l’informatica e dentro la quale risuonavano infinite voci che in molte lingue anelavano a questo testo.
 
In realtà, il mio primo approccio alla scena è precedente e risale al 1990. Si tratta dell’azione scenica Attraverso, sorta di teatro astratto in cui due mimi effettuano un viaggio attraverso i colori, dai più scuri ai più luminosi, un viaggio dal buio alla luce cui attribuivo un valore simbolico reso evidente dall’utilizzo di versi cantati fuori scena, tratti da Baudelaire, Rilke, Hölderlin e Garcia Lorca (i miei poeti amati). Poiché si trattava di un teatro iper-povero (fatto di pochi teli, qualche luce, due mimi e un piccolo ensemble), questo lavoro girò in molti piccoli, altrettanto poveri teatri italiani.
 
Ne trassi poi una seconda versione, più bella della prima, ma un poco più pretenziosa, intitolata significativamente El canto quiere ser luz: ed infatti essa girò molto meno.
 
Da tutto questo penso si possa già intuire quale fosse il mio rapporto con l’opera e perché fino ai miei 51 anni io non abbia mai cercato di scriverne davvero una: ho sempre amato le opere, ne ho visto centinaia fin dai miei vent’anni, soprattutto alla Scala, ho visto da Rossini a Berio, da Mozart a Nono, da Verdi o Wagner a Stockhausen.

 
"Ma era il “fenomeno opera” che mi infastidiva, a causa delle molteplici conseguenze negative che esso ha avuto (e ha) sulla cultura musicale italiana".







A partire da inizio ’800, mentre nei salotti borghesi di Vienna essere appassionati di musica significava suonare uno strumento, leggere a quattro mani la riduzione di una Sinfonia, oppure ritrovarsi in quattro a suonare Quartetti di Haydn e di Mozart, in Italia la medesima “passione” si manifestava con totale passività, cioè andando a teatro come al circo o allo stadio, non tanto per ascoltare un’opera, ma per “fare il tifo” oppure fischiare un o una cantante: è stato l’inizio di un’ignoranza musicale che ancora caratterizza purtroppo, nella sua globalità, il popolo italiano, il cui sistema educativo non comprende a nessun livello la storia della musica, mai considerata (come invece è) un’acquisizione culturale importante quanto la storia della letteratura, della pittura o della filosofia. E alcune recenti esternazioni politiche fanno pensare che al peggio non vi è mai limite.
 
Vi è una decisiva conseguenza economica, in tutto ciò, e questo era quanto mi irritava di più del fenomeno “opera lirica”: il 90%, o forse più, del sostegno finanziario dato dal Ministero alla musica va ai Teatri lirici, quei Teatri lirici che spesso sperperano denaro con nuovi, discutibili e costosissimi allestimenti sempre delle stesse venti, trenta opere, talvolta senza nemmeno pensare a una coproduzione con un altro teatro, dando ai cantanti cachet impensabili per ogni altro musicista, ignorando quasi completamente l’obbligo di rinnovare il repertorio riprendendo le più importanti opere scritte negli ultimi settant’anni o commissionandone di nuove, come sarebbe loro obbligo statutario. Per tutto questo mi sono a lungo tenuto lontano dal mondo dell’opera.
 
Credo di avere già detto in questa sede perché nel 2007 ho cambiato idea: era un momento (e forse ora lo è ancor di più) in cui percepivo estremamente importante esternare con forza il proprio punto di vista culturale, spirituale, sociale e politico e ho intuito che per un musicista, un compositore, il modo più forte di farlo è proiettarlo sulla scena di un teatro, poiché l’impatto scenico è infinitamente più forte di quello di un puro brano musicale, sia pur dotato di testo: immagine, gesto, movimento, vicenda hanno, lo devo ammettere, una forza comunicativa straordinaria.
 
Per questo io dico sempre che non si trattò genericamente di “voler fare del teatro musicale”, ma della mia decisione di mettere in scena un preciso testo, la Leggenda del Grande Inquisitore, dai Fratelli Karamazov, proprio per gli enormi significati che essa propone.
 
E quando, per un caso piuttosto curioso, pochi mesi dopo aver visto accettare dal Teatro Regio di Torino il progetto di Leggenda, un altro Teatro, il “Verdi” di Trieste mi commissionò nello stesso periodo, ma con un tempo di gestazione molto inferiore, una seconda opera, io scelsi un altro testo potentissimo, il microdramma di Puškin Il festino in tempo di peste, che divenne di fatto la mia prima opera ad andare in scena con il titolo di Il carro e i canti nell’aprile del 2009, due anni prima di Leggenda, pur concepita per prima. Il testo di Puškin è basato su un nucleo narrativo che io sento (ancor più nel 2022 che nel 2009) lo specchio preciso, potente ed angosciante dell’uomo d’oggi: cinque personaggi assai differenti si chiudono in una villa per esorcizzare la peste che fuori infuria con la distrazione di canti e danze, fino a quando il semplice passaggio di un carro pieno di cadaveri li riporta crudamente alla realtà.
 
È la perfetta rappresentazione dell’uomo occidentale di oggi, che viaggia su un globale Titanic lanciato contro un immane iceberg ecologico e nucleare, circondato da povertà spaventose e che rimuove tutto questo distraendosi con le più sciocche superficialità.
 
Da tutto ciò si comprende, penso, quanto io non sia affatto attratto da un teatro di puro intrattenimento, quanto dal senso originario di teatro, quello aristotelico, basato sulla proiezione sulla scena di una vera Weltanschauung per divenirne ancora più coscienti e per comunicarla con forza.
 
Così è stato anche quando nel 2018 sono tornato a un teatro povero con Il n’est pas comme nous!, per quattro strumentisti e una sola voce recitante e cantante chiamata a dare corpo e voce ad ogni personaggio dell’Intermezzo di Cervantes El retablo de las maravillas, un testo irresistibilmente comico-amaro che graffia le ipocrisie borghesi e mette in scena l’eterna aggressione che ogni diversità subisce sempre, anche quando essa è “vera” entro un ambiente di falsità. Si è trattata, per me, della prima sfida con la comicità, una comicità piena di significato, su cui mi piacerebbe tornare, un giorno.
 
In mezzo, tra il 2011 e il 2015, ho sentito la necessità di “ripulirmi” da quello che iniziavo a percepire come un “eccesso di narratività”, nel mio approccio al teatro, scegliendo il più astratto dei meta-testi possibili, la composizione scenica Der gelbe Klang di Kandinskij, andato in scena con il titolo italiano de Il suono giallo al Teatro Comunale di Bologna e divenuto, mediante l’aggiunta di un secondo testo kandinskijano, la metafora stessa del percorso interiore della creatività che si incarna faticosamente nell’opera d’arte.
 
Questo lavoro, che ho voluto a tutti i costi definire “opera” malgrado la sua astrattezza, si è però avvalso in quel caso di una pessima regia, del tutto al di fuori o al di là dei miei intenti, e malgrado la sola musica di quest’opera abbia ricevuto in Italia un premio davvero prestigioso, vorrei considerarla un’opera che attende ancora la sua vera messa in scena.
 
E per finire, proprio in questi giorni sto iniziando la mia quarta opera, ancora per il Teatro Comunale di Bologna: la mia visione della spiritualità prenderà forma attraverso uno straordinario brano biblico, quello in cui un profeta Elia, divenuto, da sicuro e violento che era, sconfitto, spaventato e sfiduciato, fugge nel deserto e ritrova il Divino in sé solo in una forma impalpabile e silenziosa e non in quella potente e sicura che forse desiderava. Il titolo Voce del silenzio dice forse già tutto.
 
Non so quale contributo io, piccolo e umile, voglia e possa dare al ricchissimo e antico mondo operistico italiano, da Monteverdi a Sciarrino.
 
Avendo però scoperto via via la potenza espressiva del mezzo teatrale, e avendo nel contempo una fede sempre maggiore nella forza espressiva e narrativa della figura musicale, difficilmente mi staccherò dal teatro musicale nei prossimi anni e, spero, decenni.
 
11. Paco Yáñez: Si può dire, quindi, che è stata una chiamata tardiva, quella dell'opera, ma con piena consapevolezza storica e un senso personale e socio-politico totalmente trascendente. All'interno di questo elemento trascendente, c'è una dimensione religiosa che è presente in molte delle sue opere, da Inno a Leggenda. Mentre la dimensione politica è stata una presenza costante nell'opera d'avanguardia europea, l'aspetto religioso è stato visto da alcuni compositori come un tabù o un anatema. Quanto è importante la religione per Alessandro Solbiati e come la collega alla dimensione più politica della sua produzione musicale?
 
Alessandro Solbiati: Sono sempre più convinto che il centro della vita, il suo nucleo più profondo, consista nel porsi ogni giorno di fronte alle grandi domande dell’esistenza umana: chi siamo? Da dove veniamo? Verso dove andiamo? Non ci si può non confrontare con il Mistero, con una dimensione trascendente. Sono ovviamente possibili mille risposte, o forse non è possibile nessuna risposta certa ed esauriente. Peraltro, penso che la fede consista proprio nel confronto quotidiano con il dubbio: ogni grande Santo ha dubitato, da San Francesco a Madre Teresa di Calcutta. E che dire dei dubbi di Cristo stesso sulla Croce?
 
Non si può vivere senza domande. Tutto il nostro mondo, e sempre più, come Rilke diceva meravigliosamente nella X Elegia Duinese già un secolo fa, spinge verso la distrazione colorata, la superficialità rumorosa. Ma lo stesso perdersi nelle distrazioni non è altro che il tentativo di esorcizzare quelle domande e segnala che le domande, volente o nolente, esistono e che prima o poi bisogna confrontarsi con esse. Io sono un credente, ma non riesco e non voglio stringere la mia fede nei confini dogmatici, confortevoli in quanto “umani, troppo umani” che la religione in generale impone alla fede. In Leggenda, faccio dire ad Aljoša Karamazov, il fratello quasi monaco, una frase che non è lui a dire nel romanzo: “Credo, ma in che cosa non so”. Mi trovo alla pagina uno di un’opera in cui il grande profeta Elia, dopo un profondo turbamento, incontra il Divino nella forma di una voce del silenzio profondo. Ecco, quella è la mia forma, mi riconosco perfettamente in quell’Elia, nel suo percorso e nel suo incontro con il Divino nella forma impalpabile di un ossimoro.

 
"Sono Cristiano, anche se sono un cristiano infastidito e lontano spiritualmente dalle oggettivazioni dogmatiche cristallizzatesi in duemila anni attorno al dettato originario".
 






E sono Cristiano anche perché, e così rispondo alla seconda parte della domanda, non conosco altra religione così profondamente umana e socialmente così rivoluzionaria, soprattutto se la si pensa nata duemila anni fa. La sua figura cardine, Cristo, è un perdente, nel mondo, il suo trono è il sacrificio, dolore e incomprensione attraversano la sua vita, proprio come quella di miliardi di uomini. Cristo è un uomo che predica l’Amore sopra ogni altra cosa e che è punito con la morte più dolorosa e ignominiosa, per questo: che cosa c’è di più vicino all’esperienza umana e nel contempo di più alto?
 
Il Discorso della montagna, la beatitudine dei poveri e degli oppressi, le accuse violente alla ricchezza e all’egoismo blasfemo (la cacciata dei mercanti dal Tempio), l’amore per il nemico, sono valori assoluti, insuperabili e mai realizzati, valori che provocano la nostra esistenza, che la spingono a pensare sì alla Trascendenza, ma vivendo profondamente l’Immanenza, l’esperienza umana.
 
Ecco perché riflessione sulla trascendenza e impegno sociale e politico si fondono nella mia opera e vorrei si fondessero ancora di più nella mia vita.
                                                             
12. Paco Yáñez: Nel corso dell'intervista abbiamo conosciuto meglio gli interessi e le passioni di Alessandro Solbiati: la letteratura, la storia, la dimensione sociale e politica dell'arte, il cinema, l'educazione, la musica... Quali altre cose ti appassionano e cosa stai leggendo al momento, da cui forse nascerà un'opera in futuro?
 
Alessandro Solbiati: Vi sono alcune altre passioni “forti”, in qualche modo connesse l’una all’altra, e che cerco di vivere sempre assieme a mia moglie Emanuela, cui mi lega da più di quarant’anni, oltre che un profondo amore, anche una forte affinità di interessi.
La prima è l’amore per la Natura, e la gioia di sentirsela attorno, nel silenzio.
 
Emanuela ed io amiamo a volte “scappare” e fare lunghe passeggiate silenziose: non vi è bisogno di percorrere centinaia o migliaia di chilometri, per questo, a volte, quando si ha poco tempo, basta allontanarsi di pochi chilometri da Milano e passeggiare per la campagna che circonda il suo lato meridionale, vicino al castello di Peschiera Borromeo, lungo il canale della Muzza o attorno alla splendida Abbazia di Chiaravalle, tutti luoghi che distano al più dieci, dodici chilometri dal centro. Tra l’altro sono luoghi che legano natura, lavoro dell’uomo (la saggia gestione contadina che ha costruito quasi mille anni fa una rete di canali attorno Milano sfruttando le sorgenti naturali e costruendo l’antica ricchezza della sua agricoltura) ed anche arte, perché Milano è circondata da una sequenza di splendide Abbazie millenarie, oltre a Chiaravalle anche Viboldone, Mirasole e poco più lontano Morimondo.
 
Se si ha un po’ più di tempo, si possono raggiungere le bellissime colline emiliane, il mare di Lerici dove spesso ci rifugiamo, oppure i monti della Valle d’Aosta o della Bergamasca: camminare a lungo in montagna è la cosa più rigenerante del mondo, io ho un buon fiato anche se sono un po’ frenato dal soffrire un poco di vertigini, cosa che Emanuela non ha.
 
In generale, amo e amiamo unire Natura con arte e cultura, e da questo punto di vista l’Italia è miracolosa: non vi è luogo che non offra chiese con affreschi, castelli, ville,  palazzi, musei. Pochi giorni fa, ripartendo da Udine dopo un concerto di Emanuela, abbiamo fatto una piccola deviazione in una cittadina che non conoscevamo, Spilimbergo, “scoprendo” un centro storico stupefacente, con facciate di case (e un castello) interamente coperte da affreschi di 500 anni fa e più, un Duomo con un’abside affrescata nel ‘300 e così via. Cerchiamo sempre di aggiungere, a qualsiasi viaggio per motivi di lavoro un pizzico di tempo in più per una visita e una nuova conoscenza.
 
Allargandosi geograficamente, sono sempre rimasto colpito da una frase del Dalai Lama contenuta in una sorta di suo decalogo: cerca di visitare almeno una volta all’anno un luogo di cultura e tradizioni diverse dalle tue. Questo allarga la mente, ci fornisce nuovi punti di vista sulla vita e sull’uomo: nel 2022, tornando a viaggiare dopo la pandemia, ho (e in buona parte abbiamo, con mia moglie) avuto modo di essere per la prima volta in Canada, in Giappone ed io anche in Kazakistan.
 
Tale allargamento geografico e culturale mi conduce a parlare di cosa sto leggendo attualmente, anche se purtroppo sono in un periodo di lettura inferiore alla media, per impegni vari (e questo mi dispiace molto). Sono tornato a un mio vecchio amore, e cioè le fiabe e i racconti popolari di varie tradizioni del mondo, africane, arabe, estremo-orientali, sudamericane, ma anche italiane. Vi è qualcosa, nei racconti popolari senza un autore, che risalgono a epoche imprecisabili, che ci conduce nella regione del mito, dell’archetipo antropologico, una regione che mi affascina e mi dà molte idee. E non escludo (anzi penso…) che da queste letture scaturirà la proposta di un futuro lavoro scenico.
 
13. Paco Yáñez: Dal punto di vista musicale, cosa sta componendo al momento e quali progetti ha per il futuro in termini di composizione musicale?
 
Alessandro Solbiati: Come dicevo rispondendo ad un’altra domanda di poco precedente, proprio in questi giorni (siamo giunti ormai, in questa intervista di cui sono molto grato, alla fine di novembre 2022) sto iniziando la partitura della mia quarta opera, Voce del silenzio, per il Teatro Comunale di Bologna, un’opera basata sull’episodio biblico in cui più mi riconosco, tanto che lo avevo già utilizzato nel mio primo lavoro di vasto respiro, negli anni tra il 1984 e il 1986, l’Oratorio Nel deserto. Questa volta però, con una maturità spero molto maggiore, poiché all’epoca non avevo ancora trent’anni, questo episodio sarà proiettato sulla scena attraverso un libretto assai più ricco che ho costruito con molto sforzo attraverso testi provenienti, oltre che dalla Bibbia, anche da Pessoa, Rilke, Kafka e Dostoevskij, i miei “autori ricorrenti”.
 
Però vorrei spendere due parole anche sui due lavori che ho appena terminato, perché ciò mi permette di aprire brevemente due altre “finestre” sul mio comporre.
 
Il primo è costituito da sei brevi brani il cui titolo è ancora incerto, scritti per il chitarrista italiano Christian Lavernier. Chitarrista, sì, ma in questo caso i brani che ho composto per lui non sono per chitarra! Christian, circa cinque anni fa, ha lavorato con un noto liutaio spagnolo, Carlos González, per farsi costruire uno strumento nuovo, fantastico e assai particolare, chiamato Soñada, una chitarra che intanto ha sette e non sei corde, poiché si avvale di una più grave accordata sul re inferiore al mi della sesta corda tradizionale, ma cui poi, mediante un allungamento del manico che può ricordare vagamente la tiorba, sono aggiunte quattro corde di risonanza, gravi, suonabili ma non “tastabili”, che conferiscono a questo strumento una profondità di suono stupefacente. È uno strumento di potenzialità sonore e musicali incredibili, di cui però allo stato attuale esistono solo due esemplari, quello di Christian e uno ancora in possesso del liutaio stesso. Christian Lavernier ha ottenuto finora brani per Soñada da compositori, tra gli altri, come Ennio Morricone e Azio Corghi. Io ho voluto compiere un’indagine approfondita su questo strumento, lavorando con il musicista stesso, e per questo ho pensato di dedicargli una serie di brevi movimenti, ciascuno dei quali affronta peculiarità timbriche e articolative differenti, un po’ come avevo fatto tanti anni con lo cymbalom. Conoscere strumenti differenti, a volte inusitati e rari, come in questo caso, apre territori espressivi nuovi, esattamente come visitare paesi a noi ignoti: anni fa ho scritto un breve brano per voce bianca e pietra bianca, utilizzando come strumento una delle pietre sonore dello scultore sardo Pinuccio Sciola. Questa attrazione per strumenti normalmente poco “visitati” è peraltro controbilanciata da un altrettanto amore per le strumentazioni del tutto storiche, come il quartetto d’archi o il trio con pianoforte.
 
L’altro brano che ho appena terminato di intitola Corde e martelletti Suite ed è per pianoforte e quattro strumenti. Il titolo allude ad una delle mie “operazioni compositive” cui sono più legato e che ritengo per me più importanti compiute negli ultimi anni.
 
Era il 2018, l’amica pianista Maria Grazia Bellocchio mi aveva quasi provocato dicendomi “voi compositori di oggi vi lamentate del fatto che i giovanissimi esecutori, in particolari i pianisti, non si accostano alla musica di oggi ma voi non fate nulla per portare le tecniche più recenti al loro livello esecutivo”. Toccato da questa “punzecchiatura”, ho deciso, pur senza nessuna commissione, di fare allora un lavoro di vaste proporzioni, in questa direzione: si tratta dei tre libri di Corde e martelletti, sorta di Mikrokosmos del XXI secolo, ben cento pezzi, ciascuno di durata attorno al minuto, in cui propongo un vastissimo repertorio di tecniche e sonorità pianistiche recenti (preparazioni, svariati usi della cordiera, percussioni del corpo dello strumento e così via, ma anche usi “nuovi” della tastiera tradizionale) ma con un livello di difficoltà adatto ai giovanissimi ed avvalendomi di titoli o riferimenti accattivanti e spesso scherzosi, in generale “sdrammatizzanti”. La prima esecuzione integrale avvenne al Conservatorio di Milano nel 2019, e sotto la guida di Maria Grazia Bellocchio si alternarono al pianoforte (con mia enorme emozione) ventotto pianisti sotto i quattordici anni, provenienti da sei diversi Conservatori italiani. Ma tra pochi giorni una nuova integrale avverrà in Puglia, al Conservatorio di Monopoli, così come ve ne è stata una, a mia insaputa, al Conservatoire di Avignon ed altre sono in progetto, oltre all’incisione integrale da parte della pianista Ilaria Baldacini: penso sia il mio più forte contributo all’avvicinamento dei giovanissimi musicisti alla musica di oggi e finora ciascuno di essi si è molto appassionato e divertito. In Corde e martelletti Suite, terminato pochi giorni fa su richiesta dell’Ex Novo Ensemble di Venezia, ho scelto otto di quei cento pezzi e li ho uniti in un unico brano in cui un giovanissimo esecutore ha anche l’occasione di sperimentare il ruolo di solista.
 
Voglio infine accennare brevemente a un progetto e a un sogno: il progetto è la composizione di un Concerto per violoncello e orchestra, poiché il violoncello è lo strumento che più amo. Il sogno è quello di incontrare sulla mia strada di compositore la danza, la danza intesa (e il pensiero mi conduce ancora agli scritti di Kandinskij) come movimento nello spazio, nel suono e nella luce, un movimento che incarni le più profonde energie interiori senza dare loro un nome e un concetto, che è quello che ho sempre cercato nella musica, ma che vorrei prendesse corpo nel gesto dei danzatori in uno spazio disegnato solo dalla luce. Ma devo incontrare il coreografo “giusto”. Per ora è solo un sogno.
 
14. Paco Yáñez: Ricordo che nei corsi di composizione al Takefu Festival lei raccomandava ai giovani compositori di non lasciarsi trascinare dal pessimismo e dall'oscurità, chiedendo loro di incorporare la luce nelle loro partiture, di far dialogare le due dimensioni che abitano ogni essere umano: una più cupa e l'altra più radiosa. Con tutti gli aspetti cupi che abbiamo trattato in questa intervista, come quelli derivanti dall'attuale situazione politica italiana, vorrei che lei, come ha raccomandato agli studenti giapponesi, si congedasse in questa lunga e così generosa intervista, per la quale lo ringraziamo sinceramente, con alcune parole che ci richiamano, come accade nei finali del suo Quarto Quartetto e del Sestetto a Gérard, a qualche speranza per il futuro.
 
Alessandro Solbiati: In questo momento scrivo da Firenze, dove sono da due giorni presidente di giuria in un particolare Concorso di Interpretazione musicale, in cui gli esecutori, solisti o i più svariati gruppi da camera, sono stati innanzitutto selezionati attraverso il grado di interesse del programma che hanno saputo liberamente elaborare e che devono anche motivare e presentare: ho visto decine di giovani meravigliosi suonare splendidamente musiche storiche o contemporanee secondo un loro progetto, tra cui due percussionisti polacchi giunti fin qui in auto portandosi due marimbe e un vibrafono. Allo stesso modo tra pochi giorni incontrerò i giovanissimi musicisti di Monopoli in Puglia che hanno studiato i miei brani per pianoforte di cui ho appena parlato: come potrei essere pessimista quando continuo a incontrare la passione di decine e decine di giovani compositori che dedicano ore e ore ad esprimere un pensiero musicale complesso, di centinaia di giovani interpreti che dedicano la loro vita a cercare un suono, un timbro, un fraseggio, che contrappongono il loro atteggiamento pieno di passione, di profondità, di spessore ad un mondo che li spinge invece ad una frettolosa superficialità, ancor più a non far nulla se non indirizzato ad un immediato guadagno, di tempo e di denaro?
 
Quella loro dedizione, quella loro passione, che sono poi le mie, le tue, Paco, quelle di chi li precede e di chi li seguirà tenendo accesa la fiaccola dell’arte intesa come profonda espressione dell’essere umano nella sua interezza, sono la vera rivoluzione profonda, continua e silenziosa, che fa superare ogni difficoltà, ogni sconforto, ogni ansia od angoscia per le vicende del mondo.
 
La musica e l’arte tutta di spessore ci saranno sempre: sono fruite da pochi? Non importa: Bach lavorava silenziosamente scrivendo capolavori che il suo mondo spesso non capiva, Schubert componeva Lieder che solo i suoi amici ascoltavano, eppure essi hanno fornito a tutta l’umanità successiva, a tutta l’umanità che lo voglia, quella Bellezza che continua a metterci in contatto con le zone più affascinanti ed emozionanti di noi stessi, della vita e dell’Infinito in cui siamo immersi.
 
Chiunque sia motivato profondamente in ciò che fa, se ciò che fa è portatore di bene e di amore oppure afferisce alla regione dell’espressione, ha dentro di sé la ricchezza più potente e rivoluzionaria che si possa immaginare.
 
Il mondo non è mai stato facile, nel ’300 Boccaccio scriveva (e nel ’500 Michelangelo scolpiva e dipingeva) mentre la peste decimava l’umanità, Debussy, Ravel, Webern, Bartók e Messiaen componevano mentre infuriavano guerre che apparivano la fine del mondo: eppure hanno continuato a farlo, opponendo la loro arte al dolore e a manifestazioni di barbara violenza.
 
Noi siamo immersi in nuove ansie e problemi planetari e a noi tocca fare la stessa cosa, cioè dire la nostra umile ma convinta parola, credere nella profondità e nell’arte, cioè alla fine dei conti nell’Uomo e nella Vita, ciascuno con la propria cultura e i propri credo, rimandando a una Trascendenza oppure no, ma sempre con lo sguardo in avanti e se possibile in alto, non mai in basso.  



La foto del Maestro Solbiati es de Cristina Moregola y ha sido facilitada por el propio compositor.
 
© Paco Yáñez, Intervista condotta tra ottobre e novembre 2022


Paco Yáñez, Santiago de Compostela, 1974, sviluppa la sua attività creativa all'incrocio e al dialogo di diversi linguaggi artistici; in particolare, fotografia, musica, cinema e letteratura. Tale è il percorso percorso dai suoi due romanzi pubblicati fino ad oggi: ...distanze... (Baía Edicións, 2008) e contra(de)cadencia (Laiovento, 2014; EdictOràlia, 2021), così come dai suoi saggi, interviste e recensioni musicali, pubblicate in otto lingue su media specializzati in America e in Europa, così come i suoi appunti per concerti e dischi. Vari compositori hanno creato opere musicali ispirate alle sue fotografie e testi poetici, dialoghi interdisciplinari che articolano tutta la sua creazione. Ha tenuto conferenze in conservatori, auditorium e spazi culturali, come l'Università di Santiago de Compostela, l'Auditorium della Galizia, il MARCO di Vigo, la Fondazione Luis Seoane o il Centro galiziano per l'arte contemporanea. Le sue fotografie sono state esposte e pubblicate in mostre, cataloghi e riviste d'arte e musica, sia in Spagna che all'estero, comprese istituzioni e media specializzati come la rivista Sibila, la rivista CGAC, Ricordi, ecc. In ambito cinematografico ha collaborato alla realizzazione dei documentari Correspondencias sonoras (2013) e Enrique X. Macías. A lira do deserto (2020), opere di Manuel del Río. Paco Yáñez è un collaboratore di The Composer Speaks

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